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NON SIAMO LA GRECIA, MA NEPPURE LA GERMANIA


Alla fine è stata una lunga serie di goffaggini a costringere Christian Wulff alle dimissioni.
Tutta la vicenda ha avuto inizio a metà dicembre 2011, quando Bild ha rivelato un'imprudente telefonata fatta dal presidente al direttore del giornale, Kai Diekmann, in cui gli chiedeva di rinunciare o almeno di rinviare la pubblicazione di un articolo imbarazzante che lo riguardava.

In assenza del direttore, il presidente ha lasciato un duro avvertimento sulla mail del giornalista, in cui minacciava anche azioni legali. Ma la direzione del quotidiano non si è fatta intimidire e il giorno dopo è uscito l'articolo in cui si rivelava che, per la costruzione della sua villa, il capo dello Stato, quando era ancora governatore della Bassa Sassonia, aveva ottenuto dalla moglie di un amico imprenditore un prestito di 500mila euro a un tasso del 4% (di poco inferiore, del resto, a quello che gli avrebbe concesso qualunque banca).

A destare scandalo non è stato tanto il prestito, quanto il pesantissimo intervento di Wulff nei confronti del giornalista, inteso come un tentativo di limitazione della libertà di stampa. Ma da quel momento i media hanno iniziato a martellare l'opinione pubblica con una serie di rivelazioni imbarazzanti, tra cui quelle di alcune vacanze all'estero trascorse dalla famiglia Wulff nelle ville di imprenditori amici.
In Italia, viceversa, la denuncia della Corte dei Conti, proprio nell’anniversario di “Mani pulite”, arriva come una doccia fredda. Secondo una felice definizione di Di Pietro “la corruzione era un cancro, ora è una metastasi”. In effetti, dopo l’azzeramento politico di allora, la moltitudine di indagini, arresti, condanne, a vent’anni di distanza possiamo dire, non senza malinconia, che il fenomeno corruttivo non solo non è diminuito, ma si è moltiplicato. E non si dica che una volta si rubava per il partito ed ora lo si fa per se stessi. Chi rubava a quel tempo, e versava una parte del maltolto nelle casse del partito, lo faceva, come fa notare Camillo Davigo, per migliorare la propria posizione all’interno della struttura partitica ed in vista di promozioni, avanzamenti e nuove prebende. Si è sempre rubato per se stessi, da che mondo è mondo: non ho mai incontrato un ladro gentiluomo che rubasse per conto d’altri. Si ruba in proprio, come nella migliore tradizione dei rubagalline: un ladro può aver conseguito due lauree, rimane un ladro.
I dati emanati dalla Corte dei Conti sono a dir poco sconsolanti: se intendiamo la corruzione in modo implicito, considerando complessivamente i prodotti della corruzione e concussione delle pubbliche amministrazioni, ma anche l’evasione ed elusione fiscale, l’evasione, per esempio, dell’IVA che tocca le vette considerevoli di un 36%, arriviamo al dato conclusivo di una stima che consiste in 60 miliardi di euro l’anno. Si risanerebbero i conti dello stato. Se poi si pensa che la corruzione stimata nell’intera area dell’Euro consiste in 120 miliardi di euro l’anno, la conclusione è drammaticamente semplice: l’Italia, da sola, produce la metà della corruzione europea.
Potrebbero fare peggio di noi i greci, è vero, ma non possono per un fattore puramente quantitativo: in Grecia le opportunità di dare e ricevere mazzette sono infinitamente inferiori all’Italia. Insomma si ruba di più, ma forzatamente per somme inferiori.
Non è un quadro edificante: abbiamo sempre criticato i tedeschi per tutto quello che non stanno facendo in Europa, l’immobilismo colpevole cui costringono le ingessate istituzioni europee, sostanzialmente nelle loro mani, l’inutile macelleria sociale perpetrata in Grecia, l’insopportabile tira e molla sugli aiuti al paese ellenico, l’ostilità a riformare le prerogativa della BCE. Ma davanti ad esempi come quello del presidente Wulff, o come quello precedente dell’ex ministro della difesa Wuttemberg (per aver copiato una parte della tesi del dottorato di ricerca – operazione che da noi si fa abitualmente e correntemente senza destare il minimo scandalo), non possiamo che toglierci il cappello e rendere omaggio alla coerenza di una democrazia progredita. Ancora una volta fa capolino l’etica protestante del lavoro, l’anima luterana di questo popolo che concepisce la politica come un “servizio” – e non come una fonte di guadagno, verrebbe da dire di Straquadanio – un servizio che un cittadino come tutti gli altri rende alla collettività, senza distinzione alcuna tra vita privata e pubblica. Un politico, per definizione, è un uomo pubblico, non deve sussistere una sola ombra sulla sua figura. Da noi, sfortunatamente vale il celebre detto: “è sconsigliabile presentare le proprie dimissioni: c’è il rischio che vengano accolte”.